Clicca sempre “ok” su accetta
“Non so leggere ma intuisco”. Lo diceva Totò. Una bella frase da inserire nel blog. Pertinente. Ma prima, per scrupolo, verifico che sia corretta. Chiedo a Google. Google mi sviscera il primo risultato utile. Clicco per leggere. Ma prima, si alza la rete dei cookie, lenta, dal fondo dello schermo. Un filo spinato giallolimone, un monolite di cemento con una faccina sorridente sopra e milioni di righe compresse in un filo che da lontano sembra un capello e invece contiene più caratteri di cento spiegazioni del MES a Flavia Vento (con risposte annesse).
Se non accetto i cookie, la barretta rimane lì, mi fissa per solleticare il mio senso di colpa, la mia attitudine all’ordine.
Mi disturba, ecco.
Perché non la pianta di esserci, ed è come lavorare con qualcuno alle spalle che promette di non dare fastidio e invece ne dà di fastidio, eccome.

E allora accetto. Come tutti. Inutile opporre resistenza.
Per la maggior parte delle persone i cookie potrebbero essere cambiali, promesse di regalare un rene, un molare, un dito al primo che citofona per chiedere di aprire il portone perché ha scordato le chiavi.
Si accetta per sfinimento, per la logica del “tanto che mi può succedere?”.
E poi ci sono le app. Milioni di app. Ci piacciono, le scarichiamo, le usiamo e le condividiamo anche.
Ma quante persone hanno mai letto le condizioni contrattuali prima di cominciare ad applicare filtri alle proprie foto come se non ci fosse un domani?

Stessa risposta di sopra riguardo alla policy dei cookie.
Nessuna.
Anche i più volenterosi, alla centoquindicesima riga, composta da parole grandi quanto un quark, si sono arresi. E hanno cliccato “ok”, accetto tutto, firmo tutto, non leggo niente e al diavolo la bugiardina delle app o il rush cutaneo mi verrà sul serio ma per il nervoso.
L’artista Dima Yarovinsky delle condizioni contrattuali fiume dei social ne ha fatto un’opera, si chiama “I agree”, e l’ha realizzata per il corso di infografica dell’Accademia di belle arti di Gerusalemme.
Una cascata di colore composta da tante stringhe la cui lunghezza è determinata dal numero di parole e dal tempo di lettura necessario dei contratti social più popolari. La colonna più generosa è quella di Instagram, ben 17.161 parole tra condizioni e corollari.

Qualche mese fa, dopo l’impazzare del social di ritocco foto Face App, quello che invecchia ogni volto in modo molto verosimile, è scoppiato lo scandalo.
Un giornalista americano si era imbarcato a leggere le condizioni contrattuali della app russa che, udite udite, prevedevano la possibilità da parte degli sviluppatori di raccogliere e conservare i dati degli utenti anche senza consenso.

Scandalo universale.
Minacce di class action, esposti al Codacons, post stizziti incollati su Facebook, Instagram, Whatsapp, tutti social a cui siamo iscritti e che, giorno dopo giorno, ci ascoltano e convertono anche i nostri pensieri in consigli pubblicitari, in apparizione mistica sulle bacheche un secondo dopo aver riflettuto sull’opportunità di comprare quel rullo per verniciare antigoccia, come se avessimo un microchip piantato nel molare.
Tutto questo mentre altre app, come quelle del traffico, dell’allenamento, della bolletta del gas, dello Yoga, delle Mappe collegate al GPS, perennemente, focalizzano la nostra posizione esatta al millesimo di secondo.
L’ultima follia in tema di tutela della privacy de noantri è scattata con la app Immuni
Quella che dovrebbe stilare una sorte di diario clinico personale per aiutarci a combattere la diffusione del virus. Ne è scaturito un dibattito tra costituzionalisti di Facebook, che per qualche giorno hanno abbandonato il camice da virologi, per immedesimarsi in dotti conoscitori del Diritto.
Dunque va bene tutto, va bene accettare i cookie ché tanto i biscotti non fanno mai male, va bene scaricare e saltare tutta la parte della privacy che rallenta la nostra voglia di arrivare al terzo livello del gioco della macchinina, va bene in fondo cedere faccia e dati alla app russa ché un popolo cresciuto a vodka non può essere tanto cattivo, va bene anche lasciare che la fotocamera si accenda senza che tu te ne accorga filmandoti nei tuoi momenti più intimi, ma no all’unica app che ti può salvare, perché?
Perché lede la privacy.

La privacy, quella a cui si rinuncia in mezzo secondo per giocare a Candy Crush.
Il problema di fondo è che non si può ledere ciò che non esiste più da quando abbiamo messo la prima faccina sorridente sul gioco che ti dice che personaggio storico sei stato in passato.
Lo diciamo spesso ai nostri clienti:
Se un programma, una app o un social sono gratuiti, vuol dire che il loro costo sono i tuoi dati

Un pò come nel poker: se ti siedi a un a tavolo e non trovi il pollo, vuol dire che il pollo sei tu.
E intanto, ora che finite di leggere, ricordate di accettare i cookie, perché loro lo sanno che non avete ancora cliccato su “ok”, sanno sempre tutto.